IL CONSUMO COLLABORATIVO

Chi svolge una funzione di controllo sulla sharing economy?

Questa è una domanda davvero interessante e merita almeno due risposte. Due come i principali contraenti dei servizi di sharing economy.
Da un lato abbiamo l’ente/società/onlus che presta il servizio o gestisce la piattaforma e dall’altro ci sono i consumatori/creatori del servizio.

Le leggi per le aziende di sharing economy.

Già nel primo articolo ho anticipato che chi si è occupato di regolamentare il funzionamento delle attività di sharing economy ha sbattuto la testa contro un muro. Prima di poter proporre una legge è infatti necessario comprendere bene il fenomeno che si vuole analizzare. Questo si è rivelato un compito davvero arduo. Spesso e volentieri, gli unici dati che si possono analizzare sono quelli forniti dalle stessa aziende.

Ogni volta che sentite dire quanti iscritti abbia air bnb, ad esempio, vi trovate davanti a delle statistiche autoprodotte. Non esistono al  momento altri modi sicuri per inquadrare un fenomeno di così vasta portata.

Come intervenire allora su una realtà poca chiara e in continua evoluzione?

Fino ad oggi abbiamo visto solo alcune realtà locali approcciarsi timidamente al tema della regolamentazione (francamente con risultati deludenti).

Senza scendere troppo in dettaglio sulle soluzioni adottate all’estero, vorrei soffermarmi su quanto ci riguarda da vicino.

In Italia al momento è in discussione una proposta di legge (consultabile qui). Il fulcro di questa proposta è il denaro.
Strano a dirsi, anche se il fenomeno della condivisione è vecchio come il mondo, solo ora che costituisce un business di livello globale, si è ritenuto di dover intervenire a porvi delle regole.
Per riassumere, tra le altre cose, questa proposta di legge si occupa di distinguere tra chi opera a livello “amatoriale” e i professionisti che ottengono un vero e proprio guadagno dall’attività.
E’ stata quindi fissata una quota di 10.000 € l’anno oltre la quale si è considerati professionisti e si è quindi chiamati a pagare le tasse in base a tre diverse aliquote.
Per i dettagli vi rimando al collegamento proposto. Per il resto sappiate che a effettuare i cosidetti controlli sarà l’antitrust.
Inizialmente si era pensato di avvalersi dell’aiuto dell’INPS ma questi non si sono rivelati adatti. In particolare sono quasi del tutto analfabeti dal punto di vista informatico.

A quali norme deve sottostare il privato?

 

Siamo arrivati alla seconda domanda che forse è la più interessante dell’argomento. Stando ai dati di AirBnb verrebbe da dire che l’80% di chi leggerà queste righe ha almeno una volta affittato o scambiato la propria casa o condivisio la propria automobile.
Si tratta di un argomento complesso che preferisco affrontare in modo dettagliato nel mio prossimo articolo!

la sharing economy ruba lavoro ad altre persone?

Se pensiamo ad Airbnb o Uber la domanda sorge spontanea. Per chi non lo sapesse, i due servizi sopra citati permettono rispettivamente di alloggiare in un luogo o spostarsi in automobile in modo nuovo. Tramite un’app si possono contattare dei privati che, in cambio del pagamento di una parcella (spesso contenuta) offrono gli stessi servizi di alcuni professionisti.

Dal punto di vista dell’utente finale si parla di un risparmio spesso notevole. A destare scalpore è il fatto che questi servizi entrino apparentemente in diretta concorrenza (sleale) con chi magari ha pagato profumatamente una licenza per poter operare come autista. ( per non citare le altre regole a cui è sottoposto).

In questa sede, non mi concentrerò solo su tassisti e albergatori. Il fenomeno che ci interessa è esteso a livello globale. Allo stesso modo è in continua evoluzione e potrebbe un domani interessare direttamente anche la vostra attività.
Solo per citare un esempio alcuni avvocati hanno iniziato a fornire piccoli servizi anche al di fuori del proprio ufficio (cosa peraltro proibita dall’albo).

 

Detto questo riponiamo la domanda: “la sharing economy ruba lavoro ad altre persone?

l’OCSE non ha dubbi: la Sharing economy non toglie posti di lavoro ma ne crea di nuovi.
Mi spiego meglio: Chi opera in questo settore offre servizi che prima non erano presenti sul mercato. Che si parli di consumatori o produttori di beni e servizi, gli attori di questa nuova realtà si muovono più profondamente nel territorio, visitando mete al di fuori del tradizionale circuito turistico e apparentemente prive di veri punti di interesse. Il classico itinerario “Venezia-Firenze- Roma” sta cambiando.

Tracciamo quindi un profilo tipo del turista di oggi.

Grazie ad internet e al continuo sviluppo di apps i turisti 2.0 hanno maturato dei nuovi bisogni che nel dettaglio si riassumono in quanto segue:

  • Visitano sempre più spesso mete che apparentemente non hanno nulla da offrire.
  • Viaggiano anche fuori stagione.
  • Utilizzano la sharing economy per ogni aspetto del turismo (Travel, Dining, Experience, Staying).
  • Restano in un luogo più a lungo.

Chi scambia casa da anni come me forse avrà sorriso di questo elenco perché… ha sempre viaggiato così!
Rovesciando il punto di vista possiamo affermare che un HomeLinker rappresenti l’esempio perfetto del turista nella sharing economy.

Com’è stata la vostra ultima vacanza?

  • Probabilmente non siete andati a Londra (città che forse conoscete a memoria) ma a Plymouth o Bath o un piccolo paesino nella campagna irlandese.
  • Grazie ad HomeLink avete risparmiato qualcosa sull’alloggio e forse siete rimasti qualche giorno in più o avete investito quel denaro in una visita al museo o una cena con chi vi ha ospitati.
  • Magari avete conosciuto una famiglia inglese che vi ha portati in un luogo sconosciuto a quasi tutti i turisti.
  • Mettiamo che abbiate anche scambiato l’auto!

Ecco, voi NON avete tolto lavoro ad un tassista o a un albergatore! Al contrario avete speso del denaro in un paesino che non compare neanche sulle guide turistiche.

Oltre a questo avete vissuto un’ESPERIENZA.

Ecco che, ancora una volta, al centro della sharing economy compare la parola “esprienziailità”.

In parole povere avete vissuto un prodotto culturale. Si tratta di un bene che, una volta consumato, non soddisfa un bisogno ma anzi, lo amplifica.
Continuerete sempre più a visitare luoghi ameni e ne parlerete ai vostri amici. Questi non è detto che scambino casa; forse un domani pernotteranno nella piccola locanda di quel paesino che vi è rimasto nel cuore e forse prenderanno un taxi!

Uscite quindi di casa con il sorriso, consci del fatto che il mondo sta cambiando, anche grazie a voi.

Nel prossimo articolo affronterò degli aspetti più tecnici di questo tipo di turismo. Per ora concentratevi sulla bellezza della condivisione e non sulla domanda “se metto la casa su AirBnb sono un evasore fiscale?”

Cos’è il consumo collaborativo?

Il consumo collaborativo non ha ancora una definizione condivisa e univoca. Al momento si può affermare senza dubbio che si tratti di un fenomeno che viene regolamentato e gestito più a livello metropolitano che internazionale.

Nonostante come vedremo, si tratti di un fenomeno con cifre da capogiro, chi rientra nel consumo collaborativo opera infatti soprattutto a livello locale. Allo stesso modo, chi si è occupato di descrivere e regolamentare il fenomeno opera prevalentemente in un contesto cittadino o regionale.

A livello mondiale solo alcuni stati hanno introdotto leggi, per lo più abbozzate, per inquadrare chi opera in questo settore. Anche a livello europeo manca quindi una vera e propria definizione di “consumo collaborativo” (entro giugno però, probabilmente verranno diramate delle linee guida in materia).

All’ avanguardia nella regolamentazione ci sono città come San Francisco, Parigi, Francoforte e più recentemente, Milano.
Oltre alla città dell’EXPO, in Italia, una commissione di deputati ha depositato recentemente un primo disegno di legge sul tema.

Vediamo ora, prima di analizzare in dettaglio la proposta di legge, quali siano le fonti più autorevoli che si sono occupate di inquadrare e/o suddivdere le “sharing company”.

L’OCSE

Il comitato del turismo dell’OCSE pubblicherà nei prossimi giorni un resoconto che accomuna tutte le realtà che abbiamo almeno due caratteristiche fondamentali:

  • L’esperienzialità
  • Il peer to peer

Il primo termine vuole indicare le realtà che mettono al centro del proprio “business” l’esperienza. Per tanto, chi acquista un servizio o partecipa ad un’attività che è incentrata sul vivere un’esperienza unica, rientra in questa macrocategoria.

Il secondo, meno vago e più complicato, si riferisce a quella che fino ad ora abbiamo chiamato “condivisione”.
Apparentemente il fenomeno sembra circoscriversi in una situazione nella quale un privato ceda o condivida, gratuitamente o non, un proprio bene ad un’altra persona.
In realtà, approfondendo l’argomento si evince che chi mette in condivisione un proprio bene emerge come  una nuova figura nel mercato. Il fruitore del servizio diventa a sua volta offerente.

In una logica di libero mercato questo solleva non pochi interrogativi. I principali su cui i “policy maker” sono chiamati a ragionare sono:

  • Queste nuove figure “rubano” il lavoro ad altre persone?
  • Come si applicano le regole previste per i professionisti, anche ai privati?
  • Chi svolge una eventuale funzione di controllo?

Le risposte non possono purtroppo essere sbrigative! Vi rimando quindi al prossimo articolo per affrontare in dettaglio l’argomento.

Per ora vi lascio con questi spunti. La prossima settimana risponderò a queste e ad altre domande!

Grazie dell’attenzione e a presto,

 

Giovanni